francesco dal co - editoriale
da Casabella 766

Viviamo in un'epoca in cui diviene sempre più pressante la domanda che spinge a interrogarsi sullo stato delle scuole e delle università, sui modi in cui si insegna, sul ruolo degli insegnanti, sulla funzione e il significato che la società contemporanea assegna all'educazione e alla formazione. In ogni Paese si tenta di dare risposte a questo interrogativo e quasi ogni esponente politico non resiste alla tentazione di mettere la scuola ai primi posti tra gli argomenti retorici delle proprie dichiarazioni e dei pro-pri programmi. Ma nonostante le crescenti attenzioni, le prese di posizione ufficiali, i continui e disparati tentativi di varare riforme, negli ultimi decenni la scuola ha subito un degrado che rischia di risultare irreversibile e di minare ogni residua capacità di comprendere quanto intorno ad essa accade e di agire responsabilmente di conseguenza, svuotando così il fine stesso dell'insegnamento, nell'accezione in cui anche un grande insegnante quale Mies van der Rohe lo intendeva. Questo processo di decomposizione apparentemente irreversibile investe le scuole di ogni ordine e grado. Nelle scuole di architettura, in molti Paesi e in particolare in Italia, le conseguenze risultano altrettanto avvertibili delle cause, senza che però la loro evidenza contribuisca ad approntare efficaci difese per contrastarne gli effetti. Cause ed effetti, anzi, sembrano confondersi in discussioni, prese di posizione e provvedimenti che traducono burocraticamente in prassi la diffusa e generalizzata incapacità di affrontare i problemi se non attribuendo ai vizi più diffusi e ai luoghi comuni più accreditati il ruolo di realistiche manifestazioni alle quali adeguarsi dei caratteri e delle necessità contingenti. Eppure la storia, e non soltanto quella recente, offre numerosi esempi istruttivi di come l'evoluzione della professione dell'architetto sia stata affiancata da seri tentativi -oltre che da fondamentali esperienze didattiche- tendenti a pensare insieme il mutare dei tempi e i modi in cui attrezzare la cultura progettuale ai compiti e alle responsabilità che accompagnano il passare delle generazioni. Questi esempi paiono dimenticati. Dopo averli rimossi, le ricerche e i dibattiti si sono affievoliti e le discussioni inaridite. Al progressivo sfumare dei toni fa ora seguito un silenzio assordante per le preoccupazioni che evoca e le incontrastate prospettive che sembra dischiudere. Per queste ragioni abbiamo deciso di dedicare le pagine di apertura dei prossimi numeri di «Casabella», nell'anno in cui ricorre l'ottantesimo anniversario dell'inizio delle pubblicazioni.della rivista, al tema Insegnare architettura. Come lo hanno affrontato alcuni architetti del passato di cui si continua a riconoscere l'autorità? Come lo ha posto la tradizione a noi più vicina? Quanto di valido e utile questa tradizione ancora offre? Come rompere il silenzio che ci avvolge? A partire da queste domande abbiamo operato alcune scelte, di cui le pagine che seguono presentano un esempio che ci auguriamo risulti eloquente. «We were born in the war». Queste sono le prime parole che si leggono nel primo numero della rivista «Focus». «Focus» fu pensata e realizzata dagli studenti detl'Architectural Associa-tion School di Londra, una delle migliori scuole di architettura del Novecento. I redattori della rivista intendevano condividere con interlocutori autorevoli le domande che loro stessi si rivolgevano riguardanti le «responsabilità che attendono uno studente» destinato a svolgere «la professione dell'architetto». Per questa ragione diversi degli articoli pubblicati da «Focus» erano dedicati al tema dell'insegnamento dell'architettura, allora come oggi attuale, ma allora tanto più urgente per giovani «nati durante la guerra», ovvero quella terminata nel 1918. Di «Focus», se non andiamo errati, vennero pubblicati quattro numeri soltanto, tra l'estate del 1938 e quella del 1939. Tra quanti accolsero l'invito loro rivolto dagli studenti e collaborarono alla rivista vi furono, tra gli altri, Walter Gropius, Alvar Aalto, Siegfried Giedion, Marcel Breuer, Maxwell Fry e Naum Gabo. Ma allestendo il primo numero di «Focus», i redattori si rivolsero a Le Corbu-sier. A lui che aveva preferito la frequentazione dello studio di Auguste Perret a quella della aule dell'Accademia di Belle Arti, affidarono il compito di affrontare la questione che più stava loro a cuore: come si insegna l'architettura. Era il 1938. Nello stesso anno, in occasione del suo insediamento alla direzione del Dipartimento di architettura dell'Ar-mour Institute of Technology (poi NT) a Chicago, Mies pronunciò il discorso da cui sono tratte le parole citate qui in epigrafe. «If teaching has any purpose», dichiarava Mies. Iflhadto teachyou architecture era il titolo dello scritto consegnato da Le Corbusier ai redattori di «Focus». Ambedue, Mies e Le Cor-busier, usarono la medesima parola «if» -se è la misura dei dubbi che accompagnano le loro raccomandazioni, la parola che toglie alle loro frasi ogni tono apodittico e prescrittivo. Se è la parola che ogni insegnante dovrebbe privilegiare, poiché insegnare implica la continua messa in gioco delle certezze nelle quali può accadere di essere tentati di riporre fiducia. È esattamente quanto oggi non avviene quasi più. Il silenzio di cui si diceva, pur possedendo in altre situazioni molte virtù, è diventato la celata dietro la quale si conservano le certezze di molti di coloro che insegnano ma che anche gli studenti, avendo rinunciato a rivolgere con insistenza ai loro insegnanti la domanda, Cosa significa insegnare architettura?, a differenza di quanto riuscirono a fare i loro predecessori editori di «Focus», non riescono più a sollevare.