peter eisenman - sei punti
da Casabella 769

Colin Rowe usava sostenere che l'architettura considerava se stessa in uno stato di perenne crisi. Forse oggi il problema è diverso, potrebbe non essere affatto una crisi, ma piuttosto un problema che non vediamo, o che magari vediamo e sentiamo tutti fin troppo, e che riguarda i media. Per cominciare a capire questa situazione, propongo qui sei punti:
II punto 1 concerne la possibilità per l'architettura di esistere in un contesto culturale dominato dai media. Questi ultimi hanno invaso ogni aspetto delle nostre vite. È difficile camminare per strada o trovarsi in un ascensore affollato senza vedere persone che parlano al cellulare a voce altissima, come se intorno non avessero nessuno. La gente esce di casa o dall'ufficio e nel giro di pochi secondi eccoli che controllano i loro Blackberry. Con gli iPhone inviano e ricevono sms, e-mail, notizie, telefonate e persino musica; è come se fossero perennemente collegati a un computer. Sempre meno persone riescono a stare nel mondo reale, fisico, senza il "supporto" di quello virtuale. Siamo arrivati al punto che si è persa la capacità di concentrarsi a lungo su un argomento. In parte ciò avviene perché i media strutturano il tempo in segmenti distinti: la capacità di restare concentrati è condizionata da quanto a lungo si può osservare qualcosa prima di essere interrotti da una pubblicità. Nei giornali, gli articoli tendono a diventare sempre più brevi; la loro versione condensata è disponibile su internet; le vendite dei libri sono in costante calo. Ciò porta, oggi, a un deterioramento di quello che intendiamo per "comunicazione", con una corrispondente perdita della capacità di leggere, o scrivere frasi corrette. Mentre le informazioni irrilevanti si moltipiicano, la comunicazione si riduce. Ora, se l'architettura è un tipo di media, essa è certo un media debole. Per combattere l'egemonia degli altri media l'architettura è dovuta ricorrere a immagini sempre più spettacolari. Le forme generate attraverso processi digitali diventano icone costruite, prive di significato. Basta sfogliare una qualsiasi rivista che dovrebbe occuparsi di architettura, per rendersi conto che, invece, essa tratta di media.
Punto 2 Corollario della predominante cultura dei media è che a poco a poco l'osservatore è diventato sempre più passivo. In tale stato di passività la gente chiede più immagini, più informazioni visive e orali. In stato di passività essa chiede cose facili da "consumare". Quanto più il pubblico diventa passivo, tanto più i media gli danno l'illusoria opportunità di compiere delle scelte: «Votate per questo, votate per la notizia di cronaca che volete sentire, votate per la canzonetta che preferite, votate per il messaggio pubblicitario che volete vedere». La possibilità di votare rende possibile un'apparente partecipazione attiva. Tale insidiosa charade non costituisce nient'altro che un'ulteriore forma di "sedazione", perché l'atto di votare è, in realtà, irrilevante; è solo il prodotto di una cultura iper-mediata; rientra nel tentativo di far credere alla gente che stia partecipando, quando, in effetti, si sta accentuando la sua passività. Anche gli studenti sono diventati più passivi che in passato. Non è un'accusa, ma un fatto. Spingerli ad agire o a protestare a favore o contro qualsiasi cosa oggi è quasi impossibile. Piuttosto, sono avvezzi ad avanzare pretese. Le generazioni che ricordano il 1968 si rendono conto di come quel tipo di proteste studentesche oggi siano impossibili. Nel corso degli ultimi sette anni, negli Stati Uniti abbiamo avuto uno dei governi più problematici, probabilmente il più problematico dal tempo del presidente Millard Fillmore, che risale a metà Ottocento. La nostra reputazione in Europa, il dollaro, l'economia e lo spirito della nostra gente ne sono risultati indeboliti. In tale stato di apatia, le persone sentono di poter far poco per determinare un cambiamento. Nonostante la guerra in Iraq stia prosciugando le nostre risorse economiche, esiste ancora la possibilità che il partito politico responsabile delle condizioni attuali venga riconfermato alla guida degli Stati Uniti. Questo avrà delle conseguenze sull'architettura?
Punto 3 II problema della passività si riferisce anche all'architettura, che oggi fa affidamento su una delle manifestazioni più insidiose di tale passività: il computer. Un tempo gli architetti disegnavano volumi, chiaroscuri e ombre, per scegliere una prospettiva. Nell'apprendere la tecnica del disegno, si cominciava a capire non solo in che cosa consistesse lo stile di Palladio o quello di Le Corbusier, ma anche di quanto le loro opere siano differenti. La sezione di un muro di Palladio era sentita dalla mano in maniera diversa rispetto a quella di Le Corbusier. Era importante capire tali differenze, perché esse sono veicoli delle idee. Allora si imparava a fare una pianta. Ora, invece, con il computer, non è necessario disegnare. Spostandosi col mouse da un punto all'altro, si possono cambiare colori, materiali e luce. Photoshop è uno strumento fantastico per persone che non devono pensare. Il problema è il seguente. «E allora» mi chiedono i miei studenti «perché disegnare Palladio? Come mi aiuterà a trovar lavoro?». Il che implica: «se non mi aiuterà a trovar lavoro, non lo voglio fare». In questo senso, l'architettura non ha rilevanza. In una società liberal-capitalistica, quello che conta è trovare lavoro, e molti studenti vanno a scuola precisamente per questa ragione. E tuttavia l'istruzione non aiuta a trovare un impiego: infatti basta saper usare bene Photoshop per diventare appetibili per un ufficio e per poter lavorare al meglio. Se chiedo agli studenti di produrre un parti - un diagramma o una pianta che renda l'idea dell'edificio - non lo sanno fare. Sono così abituati a collegare punti su un computer che non sanno realizzare una pianta o un diagramma che diano l'idea di un edificio. Questo inciderà certamente sul loro futuro, e sul futuro della professione di architetto.
Punto 4 I computer possono produrre le immagini più incredibili, che diventano rappresentazioni iconiche per riviste e concorsi. Oggi per vincere un concorso si devono realizzare forme e icone al computer. Ma si tratta di icone povere di significato o di nessi con gli oggetti del mondo reale. Secondo il filosofo pragmatista americano C.S. Peirce, esistono tre categorie di segni: le icone, i simboli e gli indici. L'icona in passato aveva una somiglianzà visiva con il suo oggetto. La nota massima di Robert Venturi che classifica gli edifici come "duck" o "decorated shed" evidenzia la differenza in termini architettonici tra icona e simbolo. Una "duck" è un edificio che ha lo stesso aspetto del suo oggetto: un chiosco per la vendita degli hot-dog dalla forma di un hot-dog gigante, oppure, nelle parole usate da Venturi, un posto dove si vendono papere che ha, in effetti, la forma di una papera. Questa somiglianzà visiva genera quella che Peirce chiama un'icona, comprensibile a prima vista. L'altro termine utilizzato da Venturi, "decorated shed", si riferisce a una facciata pubblica per un edificio generico simile a una scatola. Il "decorated shed" nel linguaggio di Peirce somiglia di più a un simbolo dal significato concordato o convenzionale. Una facciata classica simboleggia un edificio pubblico, che si tratti di una banca, di una biblioteca o di una scuola. Oggi le forme degli edifici diventano icone pur senza avere alcun riferimento esterno. Possono non assomigliare a niente di particolare, o magari assomigliare soltanto ai processi che le hanno realizzate. In questo caso, non si relazionano ad alcun termine di riferimento esterno, bensì a uno interno. Si tratta di icone dallo scarso significato e dai limitati riferimenti culturali. Non c'è ragione per chiedere ai nostri più famosi architetti: «Perché ha questo aspetto?». Non esiste risposta a questa domanda, in quanto "perché?" è la domanda sbagliata. Qual è il motivo? Perché quella certa forma può esse prodotta al computer. Si potrebbe domandare a questi architetti: «Perché questa è migliore di quelle?». «Quale, tra gli edifici di carta spiegazzata, è il migliore, quale eccelle, in particolare, e perché?». Non esiste un sistema di valori per esprimere giudizi, in quanto non esiste relazione alcuna tra l'immagine prodotta, l'icona e una qualsiasi altra cosa.
Simili icone sono realizzate attraverso processi algoritmici che non hanno niente a che fare col pensiero architettonico o con le costanti dell'architettura. Un mio collega, Mario Carpo, critico e storico dell'architettura, ha scritto un articolo intitolato II pensiero dagli alfabeti agli algoritmi in cui, per capire gli algoritmi, suggerisce di passare dal pensiero notazionale a quello algoritmico. Se una persona sta usando algoritmi informatici nello stesso modo in cui si usa un sistema notazionale tridimensionale, non può comprendere la logica delle nuove tecnologie.
Punto 5 Edward W. Said, nel suo libro On Late Style ("Sullo stile tardo"), descrive il "momento tardo" come una fase storica in cui non esistono nuovi paradigmi, e neanche le condizioni ideologiche, culturali e polìtiche atte a determinare cambiamenti rilevanti. Il "momento tardo" può essere inteso, appunto, come una fase storica, come una ricerca interna che può contenere le potenzialità di un nuovo, futuro paradigma. Ad esempio, alla fine dell'Ottocento si sono verificati eventi tali da indurre un cambiamento nell'architettura. Tra questi vanno certamente ricordati quelli introdotti da Freud nella psicologia, da Einstein nella fisica, da Heisenberg nella matematica e dai fratelli Wright nel volo. Simili trasformazioni hanno indotto una reazione contro gli stili vittoriano ed empirico dell'epoca, e hanno articolato un nuovo paradigma, quello del modernismo. In ogni ciclo storico c'è una fase iniziale, che nel modernismo andò dal 1914 al 1939; un apice, che nel modernismo si verificò tra 1954 e il 1968, quando fu annichilito dal capitalismo liberale del dopoguerra; e un periodo di opposizione, o manierismo, che seguì lo spartiacque del 1968. Nel '68 si verificò una rivoluzione interna e implosiva, di rivolta contro le istituzioni che rappresentavano il passato culturale. Questo momento fu seguito dall'eclettico ritorno del postmodernismo a un linguaggio che sembrava avere significato. L'esposizione sull'architettura decostruttivista che si tenne nel 1988 al Museum of Modern Art pose fine a questo stile così stereotipato e kitsch. Anche oggi ci troviamo in una fase di stile tardo, un periodo in cui non vi è alcun nuovo paradigma. L'uso dei computer può produrre uno spostamento dalla forma notazionale a quella digitale, ma questo, in sé, non costituisce ancora un nuovo paradigma. Resta la domanda: che cosa succede quando si raggiunge la fine di un ciclo storico? Che cosa succede dopo un'avanguardia, un periodo maturo e una fase manierista quando non c'è ancora un nuovo paradigma? Lo stile tardo descrive un momento, nell'evoluzione della cultura, che precede il passaggio a un nuovo paradigma, un momento non fatale o senza speranza, ma che ha insita in sé una possibilità di innovazione e trasformazione. La Missa So/emn/sdi Beethoven, scritta alla fine della carriera del compositore, rappresentò la sua risposta all'apparente impossibilità di realizzare un'innovazione. Beethoven scrisse un'opera difficile, persino anarchica e di non facile comprensione precisamente perché non corrispondeva al suo stile caratteristico, quello per cui era conosciuto. Le opere della fase finale della vita di Beethoven sono un esempio della complessità, dell'ambivalenza e dell'indeterminatezza che caratterizzano uno stile tardo. Queste poche parole devono suggerire che non è questo il momento del nuovo. Mentre tutti vogliono essere all'avanguardia, indagare l'antico, guardare all'interno del vecchio, all'ambito specifico della propria disciplina e dentro la sua storia puè-essere un modo per occuparsi dell'oggi.
Punto 6 L'ultimo punto concerne l'architettura e la sua autonomia. Fin dal Rinascimento, quando Brunelleschi, Alberti e Bramante stabilirono che cosa si potesse intendere per "costanti dell'architettura" - relazioni soggetto/oggetto e relazioni parte/tutto -, simili costanti sono rimaste attive. La massima dell'Alberti, secondo cui una casa è una piccola città e una città una grande casa, rimane valida ancora oggi. In altre parole, la relazione tra la parte e il tutto, o tra la figura e il suo sfondo, sì estende dalla casa al punto in cui essa sorge, e da questo alla strada in cui si trova e, ancora, dalla strada al quartiere, e dal quartiere alla città. Tali termini di ragionamento costituiscono la base di una sintesi dialettica, che è un aspetto del progetto metafisico. Così, una delle questioni che devono essere esaminate è la problematica della relazione tra la parte e il tutto, che rientra nella dialettica hegeliana di tesi e antitesi, che formano un nuovo insieme unitario nella sintesi. L'architettura si è tradizionalmente occupata di tali categorie dialettiche, che si trattasse del rapporto interno/esterno o di quello figura/sfondo. Oggi è necessario chiedere all'architettura se sia possibile smembrare visivamente questo insieme sintetico unitario, e trovare nella nostra disciplina la possibilità di mettere in discussione tale sintesi dall'interno. Il poststrutturalismo considererebbe tale tentativo la "destituzione" della metafisica della presenza. Se insisteremo nel pensare che il presente sia necessariamente vero, o che quello che vediamo sia vero, allora continueremo ad aderire al mito che vede nell'architettura il "luogo" della metafisica della presenza. Con questa consapevolezza, può diventare possìbile allontanarsi dall'egemonia del visuale. Si dice sempre che il formalismo coincide con il progetto di autonomia dell'architettura. Per me è precisamente questa autonomia a costituire la modalità con cui l'architettura interagisce con la società. L'attività dell'architettura e il suo "discorso" hanno un impatto sulla società. Fare architettura, essere architetti, è un atto sociale: non perché fa sentire meglio le persone o costruisce abitazioni per i poveri, centri commerciali per i ricchi e garage per le loro Mercedes. Mi riferisco alla capacità di comprendere quelle condizioni di autonomia che sono architettoniche, che rendono possibile un'interazione con la società, che cioè operano contro l'attuale egemonia della nostra struttura sociale e politica. Questo è ciò che l'architettura è sempre stata e sempre sarà.